Yukon Arctic 100 miglia di Stefano Gregoretti e Davide Ugolini
Era la fine di settembre scorso ancora stavo assaporando il gusto correre tra i selvaggi canyon americani dove deserto,foreste, praterie e rocce si susseguono in modo tale da non farti sentire la fatica. Tra una tappa e l’altra della fantastica Grand to Grand Ultra (vedi numero di gennaio di Spirito Trail), ho la fortuna di conoscere Ray Zahab, tra gli organizzatori della gara suddetta e grandissimo motivatore, ultrarunner, fondatore della Impossible to Possible, i2P e organizzazione non-profit che incoraggia i giovani ad andare oltre i propri limiti utilizzando l’avventura come mezzo educativo. Il discorso qui si farebbe talmente ampio che invito tutti a farsi un giro virtuale sul loro sito, www.impossibletopossible.com. Oltre a questa bellissima e complessa iniziativa, conoscendolo vengo a sapere che Ray detiene record di tutto rispetto,che ovviamente catturano la mia curiosità; record conquistati attraversando in solitaria deserti e montagne, vallate del tutto inospitali, il Polo sud, la Valle della Morte… Per uno cui era stata diagnosticata un’anomalia alla colonna vertebrale,destinato ad una vita sedentaria, un panorama incredibile. Parentesi cui tenevo,ma torniamo a noi!Osservandomi tappa dopo tappa, vedendo il mio passo e i miei tempi di recupero dopo ore passate a superare dune di sabbia o a percorrere canyon tutti in salita, Ray getta nella mia mente insaziabile di novità la scintilla che mi porterà ad essere tra i concorrenti di un ultratrail nel Grande Freddo: la tanto temibile quanto affascinante e rinomata Yukon Artic Ultra.Ray parla, racconta stimola, fa scoppiare il desiderio che porterà me e l’insostituibile compagno di tante avventure Davide Ugolini al primo posto, conquistato pari merito, della Yukon Artic Ultra, 160 km non-stop. Non solo mi dà mille motivazioni positive, ma appena rientrato in Italia dalla Grand to Grand, mi ritrovo con una “tabella di marcia”calibrata per questa nuova durissima gara, allenamenti studiati da Ray incentrati più sulla qualità e la potenza che sulla distanza, arrivando settimana dopo settimana a forgiare il mio corpo e a mettere a dura prova la mia resilienza, soprattutto mentale! Ma lui già sapeva: alla fine delle nostre chiacchierate via skype si divertiva con l’italiano dicendomi di non andare a piangere dalla mamma a fine lavoro!La parola d’ordine per i tre mesi precedenti la gara è stata solo una: simulazione. Quindi, il lungomare di Rimini,Riccione,Misano,Cattolica,così come i sentieri dei nostri Appennini,sono stati teatro di corse da veri marines,con pneumatici d’auto legati alla vita per abituarsi a trainare la slitta contenente il materiale obbligatorio.Non so se da altre parti la cosa sia comune,ma qui sia io che Davide siamo stati presi un po’ per pazzi,fotografati e ripresi da automobilisti e conoscenti,interrogati con facce sbalordite,quasi fossimo alieni!Ormai ci dormivamo con quel pneumatico.Ma è servitoeccome;i risultati raggiunti a livello muscolare ci hanno permesso di non essere impreparati ad un’evenienza che certo non ci aspettavamo. Se gli anni precedenti si era soliti percorrere un tracciato “veloce”, ghiacciato,duro, quest’anno le abbondanti nevicate e l’innalzamento della temperatura a ridosso della gara hanno ricoperto la pista di tanta neve alta e morbida! Un’impresa proseguire per tante ore in quelle condizioni e con l’attrito creato dalla slitta, che ovviamente non scivolava.Al momento dello start, abituati a partenze in batteria dei triatleti e alle migliaia di trailers in fuga verso il Monte Bianco, abbiamo d’istinto messo la quarta partendo veloci sotto gli occhi stupiti sia del pubblico accorso che degli altri concorrenti; tranquilli, con slitta e bastoncini,loro salutavano e sorridevano forse non troppo ansiosi di immergersi in quella natura immobile e desolata. Gli atleti in gara erano una settantina, divisi nelle varie lunghezze della Yukon Artic: la maratona, la 100, la 300 e la 430 miglia. Ovviamente i passi erano diversi, ma a detta di tutti abbiamo veramente fatto un tempo degno di nota; in sole 4 ore sono arrivato a coprire i primi 42 km. Il mio intento era infatti quello di chiudere la gara battendo il record di 21 ore e 44 minuti. Ma troppo impegnativo il terreno; ben presto mi renderò conto che non è possibile, non quest’anno.Riuscirò comunque a tenere un buon ritmo, restando concentrato sulle mie sensazioni, sulle balise poste ogni 500 metri, su come tenere un passo il più possibile leggero per fare meno fatica su quel sentiero soffice.Mi riempio gli occhi di quel bianco sconfinato, degli alberi appesantiti di neve; guardo le tracce fresche degli animali, cercando di non farmi intimorire da quelle enormi che sicuramente appartengono all’alce canadese, ancora più temuto dell’orso. In quella solitudine ho quasi un capogiro nel pensare che se davvero avessi un malore sarei io nel mezzo del nulla. Di motoslitte ne avrò viste passare giusto due in 25 ore (giustamente stanno pronte a partire per chi ha veramente bisogno) ed avendo studiato prima la cartina so che non esiste paese in un raggio di almeno 70 km; questa consapevolezza anziché intimorirmi mi dà una pace e un’euforia che vorrei quasi non finisse mai… Sono felice della decisione presa prima di partire che non avrei avuto con me nessun segnalatore gps (per noi della 100 miglia non era obbligatorio), nessuno spot con cui avrebbero potuto seguirmi via web o gli organizzatori stessi.Siamo ormai abituati a corredare qualsiasi passo facciamo, sportivo o meno, con ogni sorta di tecnologia e modernità, ma quando si sceglie di vivere esperienze così forti nella natura, che senso ha mettere dei filtri, calibrare il tutto meccanicamente, guardare più i nostri dati disegnati su display vari piuttosto che il mondo attorno? Dove resta relegata l’avventura vera? L’abbraccio totale al paesaggio che abbiamo il privilegio di attraversare?Se avessi avuto ristori ogni 10 km (e ne abbiamo avuti solo due sulla distanza totale) o la“scorta” in motoslitta ogni 20, dove sarebbe stata l’avventura? Ricordo di aver letto e riletto tempo fa un bellissimo dialogo tra Walter Bonatti e Reinhold Messner; concordavano sul fatto che andare in montagna e nella natura alla stregua di Thoreau, era come “succhiare il midollo della vita”. Senza troppe mappe o tecnica ma cercando di trovare etica e bellezza,di riprodurla con sforzo, sapendo che nessuna scorciatoia è conquista vera, e che al meglio si arriva con la fatica. In questa gara ho vissuto tutto questo e anche di più; certo avevamo il sentiero tracciato, non sono ancora un esploratore, ma ho sentito un meraviglioso senso di libertà, pur in una fatica mai provata. Il sonno infatti non si può raccontare, devastante; le ore passate a correre nel buio sono state almeno sedici e mai mi era successo di correre da addormentato. Me ne sono accorto semplicemente atterrando di faccia sulla neve! Proprio in quel momento infatti ho deciso di riposare un poco, accovacciandomi sulla slitta avvolto dalla coperta di sopravvivenza. Pochi attimi per prendere sonno, ma ricordo benissimo di essere stato investito dal silenzio come fosse un pugno; fino a quel momento mi avevano fatto da sottofondo ininterrotto il sono dei miei passi sulla neve e lo strisciare della slitta,da fermi tutto è davvero immobile,ovattato,unico rumore il pulsare della mia vena sul collo.Un microsonno di dieci minuti e al risveglio in quel biancore notturno una pila amica e qualche frase in dialetto mi sveleranno che Davide è di nuovo con me! Davanti a noi ancora una trentina di km, e gli ultimi si sa sono sempre i più impegnativi, soprattutto per una mente già provata dalla mancanza di sonno.Un paio di battute per farci coraggio a vicenda e si riparte. Ma a toni bassi, perché a correre nei deserti, siano essi di sabbia rovente o di ghiaccio, si è consapevoli di essere lì di passaggio,quasi elementi di disturbo in una Natura che sola può offrire emozioni indelebili. E dopo 25 ore di fusione totale con queste emozioni, provati dalla lunga corsa nel freddo, il traguardo arriva, o meglio supponiamo sia quello che appare ai nostri occhi. Il fatto è che, come ci diranno, non ci aspettavano così presto! Non sapendo bene cosa fare, ubriachi di contentezza,sonno e fame, finiremo per fissare noi lo striscione FINISH al traguardo… ma mancava ancora qualcosa. Entrati nella casetta adibita a ristoro, vediamo in bella mostra le medaglie per l’occorrenza; Davide metterà al collo la mia ed io farò lo stesso con lui. Pochi convenevoli certo, nessun tifo da stadio né cerimonie particolari, ma la soddisfazione e il gusto della strada fatta, di quel bagno di natura ancestrale, valgono mille cascate d’oro.Quando da piccolo divoravo uno dopo l’altro i libri di Jack London,la mia immaginazione attraversava spazi infiniti e mi portava proprio nelle foreste che ho avuto la fortuna di percorrere,mi faceva sentire ululati selvaggi che come in un sogno nello Yukon ho sentito vicinissimi a me. Io nel destino ci credo, ma credo molto di più nella volontà dell’uomo, nella tenacia e nella passione con cui investe nei propri sogni; credo che non sia mai troppo tardi per alzarsi e andare nella loro direzione.Credo non li si debba mai mollare. E la mia di passione, negli ultimi anni mi sta portando in luoghi che non so dirvi quanto mi abbiano allargato l’anima, quanto abbiano amplificato la mia sete di correre nel mondo. Ma non fraintendetemi; l’Italia offre gare di trail in scenari meravigliosi che ci invidiano ovunque, il calendario infatti anche quest’anno è bello pieno. Forza allora…
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